In vista della prossima presentazione del volume America oggi. Cinema, media, narrazioni del nuovo secolo giovedì 12 febbraio 2015 presso la Biblioteca “Renzo Renzi” della Cineteca di Bologna, ho avuto il piacere di incontrare la curatrice, la Professoressa Giulia Carluccio dell’Università di Torino, e di farle qualche qualche domanda.
I saggi del volume prendono in esame opere e personalità rappresentative del cinema degli Stati Uniti dal 2001 a oggi. Secondo Lei, quanto è profondo il cambiamento dell’identità degli Stati Uniti percepibile nelle opere realizzate dopo l’11 settembre?
Fare riferimento all’11 settembre significa soprattutto riferirsi a una soglia storica, a un evento in qualche modo epocale che bene funziona come punto di riferimento per cogliere come il cinema statunitense degli anni Zero racconti la contemporaneità. L’idea del volume è, appunto, quella di vedere come anche in riferimento a un trauma collettivo di tale portata, la questione dell’identità e dell’americanità venga percepita, analizzata, riferita, vissuta in un cinema che inevitabilmente deve fare anche i conti con quanto è accaduto. Non si tratta certo di pensare che tutto il cinema successivo all’11 settembre debba parlare direttamente di questo, quanto di vedere come a fronte di un evento del genere alcuni elementi già presenti nel cinema precedente acquistino un’evidenza, una dimensione nevralgica maggiore.
Credo che le analisi proposte testimonino il problema di una crisi dell’identità americana, raccontata in maniera più o meno esplicita, con maggior o minore consapevolezza e con angolazioni e prospettive diverse; e che molto cinema in cui ci siamo occupati renda effettivamente conto dell’esigenza di parlare di chi si è e di dove si vive, del dover fare i conti con l’essere americani, e questa è la cifra che sta alla base di tutto l’impianto del volume e della scelta dei casi di analisi. Diciamo, dunque, da un lato che dopo l’11 settembre emerge con più evidenza la questione dell’identità americana e, dall’altro, che il cinema, tra le molte narrazioni che se ne sono fatte carico, sicuramente l’ha fatto e lo fa con molta sensibilità e ricchezza.
Il volume affronta diversi studi di caso. Si spazia da una serie di film che, nella prima sezione, fanno riferimento diretto alla società americana o alla storia americana, ad altri legati a movimenti o tendenze produttive, come il cinema indipendente o il blockbuster, sino alla serialità televisiva. L’idea è sempre quella di tentare di lavorare sul cinema con uno sguardo attento al contesto: e ci sembra che in ogni caso il cinema americano dell’ultimo decennio, anche quando parla d’altro, non possa non raccontare in qualche modo l’America.
I collaboratori del volume hanno affrontato testi e autori molto diversi tra loro. Da questo mosaico è emersa un’identità coerente, o approcci contrastanti?
Sono indubbiamente declinazioni diverse; perché nonostante, com’è ovvio, ci fosse un progetto coerente di partenza, non c’è stata la volontà di irreggimentare o ingabbiare fin dall’inizio in uno schema le diverse analisi. L’elemento comune, la richiesta che ho rivolto agli altri autori e colleghi che hanno contribuito al volume, era appunto quella di provare a capire come una serie di film, un genere, uno stile, o anche un percorso d’attore, avessero fatto variamente i conti con il contesto americano; e quindi si è lavorato da un lato su film, come ricordavo prima, più direttamente collegati all’America post-11 settembre, come per esempio La venticinquesima ora nel saggio di Andrea Chimento, dall’altro su prodotti più legati ai generi, come è il caso della comicità demenziale dei fratelli Farrelly nel bellissimo saggio di Giacomo Manzoli; e anche in quest’ultimo c’è una lettura profondamente attenta agli elementi sociali e identitari.
È ovvio che il percorso è eterogeneo: però l’intento è in ogni caso quello di proporre l’analisi di uno o più film partendo da elementi di stile o tematici per arrivare poi a cogliere come in qualche modo il cinema sia sempre una fonte storica non meccanica, al di là di qualsiasi teoria del rispecchiamento, una fonte sensibile da interrogare con gli strumenti, appunto, dell’analisi, e in quanto cinema e narrazione.
Al volume hanno contribuito studiosi affermati, ma anche giovani ricercatori. Con quali criteri avete individuato e invitato i possibili collaboratori?
Abbiamo seguito innanzitutto un (ovvio) criterio di competenza, individuando gli studiosi più significativi rispetti a determinati ambiti, come Leonardo Gandini per il neo-noir, o Guglielmo Pescatore per quanto riguarda la serialità televisiva, per limitarci a due esempi tra tutti (e lo stesso discorso vale per gli autori più giovani, che magari a questi argomenti hanno dedicato una tesi di dottorato, o che comunque si occupano di questioni vicine a quelle di cui si sono occupati nei saggi del volume).
Inoltre, proprio perché in questo volume ci occupiamo di un cinema strettamente contemporaneo, avevo l’idea che studiosi non solo professionalmente ma anche cronologicamente appartenenti a generazioni differenti potessero intrecciare sguardi e percezioni diversi, e dialogare in modo originale.
Per esempio, tra i collaboratori c’è un nostro dottorando, Hamilton Santià – che ha scritto il saggio su Jason Reitman – con il quale ho discussioni di ore e ore sul cinema indie, che appassiona entrambi ma in modo molto diverso e per ragioni diverse; ed è sempre molto stimolante, perché mi rendo conto che un venticinquenne o un ventottenne in un cinema di tendenza vedono alcune cose, mentre io ne vedo altre. Mi sembrava quindi giusto che in un testo sulla contemporaneità si mettessero a frutto studi, competenze e metodologie innanzitutto solide, beninteso, ma anche percezioni diverse legate anche a elementi anagrafici e biografici.
L’ultima sezione è dedicata a produzioni televisive cosiddette “di qualità”. Quanto si possono oggi considerare assimilabili all’universo cinematografico, e in cosa invece esiste ancora una differenza?
Innanzitutto bisogna dire che oggi anche quando si parla di cinema si parla di forme molto diverse tra loro; tra un caso di franchise come Matrix, in cui evidentemente gli sconfinamenti, le relazioni con altre piattaforme mediali, il transmedia storytelling ecc. sono assolutamente costitutivi – e un film di Scorsese vi sono evidenti differenze. Casetti, a proposito del cinema contemporaneo, o meglio dell’esperienza contemporanea del cinema, parla di “Cinema 2”, un cinema che inoltre si fruisce in modi diversi, “rilocato”, quindi da questo punto di vista le specificità si perdono o diminuiscono; e il formato della serialità televisiva ha altre sue specificità anche nelle forme di consumo.
Io credo però che sia bene per gli studiosi non limitarsi a una forma sola; attualmente, soprattutto in Italia, chi si occupa di cinema fa solo quello e viene considerato un po’ retrò; chi studia la serialità televisiva si concentra solo su questa; io invece credo che le forme di dialogo a più livelli siano moltissime e il cinema abbia molto da imparare dalla serialità televisiva (mentre è evidente che quest’ultima dal cinema ha già imparato).
Il volume comprende un testo di Mariapaola Pierini su Philip Seymour Hoffman, scomparso un anno fa, al quale dopo la presentazione del volume verrà dedicato un tributo con la proiezione di Capote. Cosa vi ha spinto a dedicare un saggio del volume a un attore?
L’idea di dedicare un saggio a Philip Seymour Hoffman in realtà è partita ben prima della prematura scomparsa dell’attore; Abbiamo scelto quell’attore perché evidentemente attraversa un certo tipo di cinema, lo ha attraversato in modo rilevante, ed è il cinema sul quale ci interessava soffermarci in un volume che s’intitola America Oggi. Ci sembrava che i personaggi di Hoffman e il suo stile di recitazione, e la sua stessa fisicità, potessero raccontare in modo nevralgico e sensibile molto del contesto statunitense attuale.
Quanto poi alla scelta di parlare di un attore, è una cosa a cui tengo molto perché trovo che nei film studies in Italia l’attenzione dedicata agli attori sia ancora molto limitata, con scarsa attenzione a quell’insieme di apporti espressivi, linguistici e culturali che la presenza di un attore o di un divo in qualche modo negoziano con gli altri elementi del linguaggio cinematografico, della messa in scena, della narrazione, contribuendo allo spessore storico e culturale complessivo del film.
Da qui la decisione di affrontare anche un caso di attore in questa selezione di questioni e film possibili – comunque non esaustivi, un corpus ridottissimo rispetto alla complessità e alla vastità dei percorsi del cinema americano contemporaneo; l’idea è di partire da “alcuni” casi esemplari, indicativi, per ragionare, con gli strumenti dell’analisi del film (e non da sociologi o storici) su alcuni aspetti rilevanti della società americana contemporanea.
Gli attori sono importanti, sono corpi, volti, insiemi di tratti stilistici e frammenti biografici su cui si riflette a mio avviso ancora troppo poco; e mi sembrava quindi che un’analisi ravvicinata di un caso di attore potesse, se non completare il volume – perché non può essere in nessun modo esaustivo – comunque arricchirlo con un percorso tra alcuni altri film indagati attraverso la lente di uno dei maggiori attori del cinema americano di questi anni.
(intervista raccolta il 19 gennaio 2015)
Giulia Carluccio (a cura di)
America oggi.
Cinema, media, narrazioni del nuovo secolo
2014, ISBN: 978-88-89908-86-0
pp. 332, € 25,00